Ieri con i ragazzi del triennio del Liceo Dante Alighieri di Crema abbiamo discusso di verità. Era il secondo incontro di un laboratorio filosofico su “Fake news e Postverità“. Dopo aver indagato, la settimana scorsa, il concetto di postverità e alcuni fenomeni che sembrano aver portato la nostra società contemporanea ad una svalutazione del concetto di verità (come le fake news, la rivendicazione dell’opinione personale, o addirittura di ‘Alternative facts’ da parte della politica), ieri ci siamo soffermati sull’analisi di due paradigmi contrapposti di verità.
Da un lato, la verità come adesione (corrispondenza) ad una realtà data, indipendente da noi e oggettiva; dall’altro la concezione di verità come inevitabilmente condizionata dalla prospettiva epistemica del soggetto.
Dopo aver visto le ragioni a favore di entrambi i paradigmi e discusso su quale i ragazzi trovassero più convincente, si è ragionato insieme sulla dimensione etico-politica del concetto di verità.
Siamo partiti da una sollecitazione di Habermas: non appena il concetto di verità viene meno in favore di una validità-per-noi, dipendente dal contesto, allora nessun argomento è valido per convincere qualcuno a cercare un accordo su ‘p’ al di là dei confini del suo gruppo epistemico (J. Habermas, “Richard Rorty’s Pragmatic Turn,” in Rorty and His Critics, ed. Robert Brandom, Oxford, 2000, pp. 48–49).
Su questo punto i ragazzi erano concordi: anche a prescindere dalle diverse concezioni di ‘verità’ che più o meno implicitamente possiamo assumere nel nostro pensare comune, tutti hanno riconosciuto immediatamente la valenza etica del richiamo alla verità. Capire che cosa sia la ‘verità’, cosa implica questo complesso concetto e quali conseguenze possono derivare da una sua svalutazione non è solo una questione epistemica, è anche – se non soprattuto – una faccenda politica che ci riguarda tutti da vicino e determina inevitabilmente la nostra comunità.