Il principio del merito come criterio di distribuzione dei beni o di opportunità è oggi saldamente fissato nel nostro sentire comune: lo si ritiene un legittimo ascensore sociale e lo si difende come garanzia di equità di trattamento contro privilegi e discriminazioni. Ma siamo sicuri che funzioni davvero? Soprattutto, siamo certi di sapere di cosa stiamo parlando quando usiamo il termine ‘merito’ o quando difendiamo la ‘meritocrazia’?
Ne ho discusso con i miei studenti in queste ultime lezioni di didattica a distanza in un percorso tematico appositamente dedicato al concetto di merito.
Diversi gli aspetti affrontati (che rimando a più post). Siamo partiti chiedendoci:
Cosa definisce il concetto di “merito”? Quando riteniamo una persona meritevole di qualcosa?
Nella storia del pensiero è probabilmente Aristotele il filosofo che fra i primi ne ha difeso il valore: tra più persone che vorrebbero lo stesso bene, questo deve andare a chi se lo merita di più, sostiene lo stagirita.
Cosa significa, però, meritarsi qualcosa? Lo stesso Aristotele sapeva che non era affatto semplice rispondere a queste domande:
«tutti infatti concordano che nelle ripartizioni vi debba essere il giusto secondo il merito, ma non tutti riconoscono lo stesso merito, bensì i democratici lo vedono nella libertà, gli oligarchici nella ricchezza o nella nobiltà di nascita, gli aristocratici nella virtù» (Aristotele, Etica Nicomachea, V, 1131a, 25 ss.).
Il concetto di merito, suggerisce Aristotele, non è universalmente definito, ma rimanda a preferenze soggettive, storicamente e culturalmente determinate. Basta riflettere sul fatto che ciò che è considerato meritorio qui e oggi non necessariamente lo è in altre parti del mondo o lo era nell’Antica Grecia.

Con gli studenti ci siamo quindi chiesti che cosa fosse il merito per noi: quali elementi riteniamo debbano rientrare nella considerazione del merito? Ci abbiamo ragionato e discusso insieme, e queste alcune considerazioni emerse:
Le competenze acquisite: il primo elemento individuato è quello della competenza, per cui si premia chi sa far meglio una certa cosa (sia un esercizio di matematica, la corsa dei 100m, o un lavoro a progetto). Questo criterio ha inizialmente trovato tutti concordi e non ha sollevato nessuna critica o obiezione tra gli studenti. [Non abbiamo problematizzato qui il rapporto tra competenze e opportunità, e quindi disuguaglianza sociale, lo si è fatto in un momento successivo].
- L’impegno profuso: anche questo è un fattore che assume grande importanza per gli studenti e che incontra il favore di quasi tutti. Ma in questo caso se si approfondisce un attimo la questione emergono distinguo e precisazioni interessanti. Ad esempio, tutti ritengono che l’impegno mostrato da un candidato debba venir considerato quando in suo favore, per cui un certo risultato acquisisce più peso se ottenuto con grande impegno. Più problematico risulta invece diminuire il credito di un buon risultato se raggiunto con poco sforzo, eventualità che appare ai più come un’ingiustizia: “non è colpa del candidato se è bravo a fare una certa cosa e non ha bisogno di grande impegno per ottenere i risultati”, oppure, “se riesce anche con poco sforzo in una certa attività può significare che si è impegnato in passato ed ora è competente; non sarebbe giusto svantaggiarlo per questo“. Inoltre, anche se ritenuto un elemento importante, pochi arriverebbero a sostenere che l’impegno possa essere l’esclusivo criterio di merito, indipendentemente dai risultati ottenuti. Infine, si è ammesso che non è banale riconoscere e tanto meno misurare l’impegno profuso.
- I talenti naturali: la proposta di valorizzare i talenti naturali è risultata da subito molto problematica. Vi è la questione di che cosa sia un ‘talento’ e se vi siano talenti del tutto ‘naturali’. Per amore di discussione l’abbiamo definito una qualunque capacità che l’individuo possiede senza particolari sforzi. I più ritengono il talento naturale frutto di fortuna e come tale non andrebbe premiato. È molto problematico, tuttavia, capire come si possa neutralizzare la disparità di talenti naturali nella valutazione. Un’alunna ha proposto di farlo guardando al miglioramento relativo delle performance in un tempo dato, ma qualcuno ha obbiettato che così si avvantaggerebbe chi parte da livelli bassi e ha ampi margini di miglioramento, rispetto a chi parte da livelli più alti. Altri hanno sostenuto che neutralizzare il talento non avrebbe senso per il ruolo da esso giocato nel determinare la performance finale.

- Le qualità morali: anche questo elemento non ha trovato tutti d’accordo. Anzitutto, non è scontato determinare quali siano le qualità morali da apprezzare. Di nuovo semplificando, abbiamo provato a ragionare assumendo come qualità morali ampiamente riconosciute l’onestà e il rispetto altrui. Per alcuni queste qualità rivestono grande importanza nella valutazione del merito di una persona, e possono diventare un elemento decisivo o addirittura prioritario rispetto ad altri; per altri, l’ambito morale non è sempre pertinente nella valutazione e premiazione dei meriti (uno studente ha rilevato che la correttezza morale ci interessa molto se dobbiamo selezionare un amministratore pubblico o un insegnante, ma può interessarci meno se dobbiamo selezionare un bravo musicista o tecnico). Per altri ancora, le qualità morali sono sempre importanti, ma la loro valutazione sarebbe troppo sfuggente e potrebbe aprire a discriminazioni sulla base di pregiudizi o stereotipi.
- I risultati ottenuti (le performance) anche se frutto di fortuna: un ultimo elemento che si è voluto considerare nel nostro esame è stata la prestazione. Questa si distingue dalle competenze acquisite poiché potrebbe essere determinata da fattori contingenti. Su questo aspetto la discussione si è accesa tra chi propendeva per tentare di neutralizzare il fattore ‘fortuna’, inserendo considerazione sul lungo periodo (si pensi ad esempio alla selezione di alcuni atenei prestigiosi a numero chiuso, dove il risultato del test d’ingresso viene calmierato da altri parametri che guardano alla storia del candidato), e chi invece – ritenendo tutti gli altri fattori altrettanto arbitrari – preferiva per valutare una prestazione una tantum, nel tentativo di semplificare la questione.

Non siamo giunti a una definizione concorde del concetto di merito, ma il lavoro svolto ha fatto emergere tutta la complessità di una questione apparentemente chiara o banale, consentendo così ad alcuni di noi di “vedere per la prima volta” un problema in ciò che veniva dato per scontato. Per chi scrive, è proprio questo uno dei compiti della filosofia: rilevare la complessità, i distinguo, le eccezioni, le contraddizioni laddove altrimenti non le noteremmo.
La sollecitazione di Aristotele ci è quindi servita per una riflessione e un esame di alcune nostre assunzioni e convinzioni irriflesse: “che vinca il migliore” ci trova generalmente tutti concordi… fino a che non ci si chiede che cosa significhi essere il migliore.

[Segue: 2/ Non è tutto merito ciò che luccica. Per una critica al concetto di merito]