mercoledì 13 Ottobre, 2021

Squid Game: l’etica in gioco

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Serie televisiva sudcoreana, scritta e diretta da Hwang Dong-hyuk. Uscita il 17 settembre 2021 su Netflix, la serie è subito diventata un successo globale, probilmente la serie ad oggi più vista al mondo.

Squid game letteralmente significa “il gioco del calamaro”, un gioco per bambini popolare in Corea, che nella serie diviene un gioco per la sopravvivenza: 456 giocatori, accettano di giocare le loro vite per denaro. Portati su un’isola a loro ignota e vestiti di verde, saranno sorvegliati per tutto il tempo da guardie mascherate e armate (vestite di rosso) e dal loro capo, il frontman, un’inquietante figura mascherata di nero. I giocatori non avranno alcun accesso al mondo esterno o via di fuga. Potranno abbandonare il gioco solo se la maggioranza di loro è d’accordo nel farlo; in quel caso, tuttavia, non sarà dato loro alcun premio in denaro.

Tre sono le semplici regole che definiscono i giochi:

  1. Il giocatore non può lasciare il gioco
  2. Se rifiuta di giocare il giocatore è eliminato
  3. I giochi possono finire se la maggioranza è d’accordo.

Le sei sfide che dovranno affrontare richiamano tutte giochi popolari per bambini – da un due tre stella, al tiro alla fune, al gioco alle biglie – ma in versione macabra: chi perde viene brutalmente eliminato. Solo chi arriverà al termine delle sei gare da vincitore potrà andarsene con il ricchissimo bottino: un montepremi di 45,6 miliardi di won (circa 33 milioni di euro).

Squid Game ci propone, tra le altre cose, un laboratorio di etica, lo fa rappresentando con un linguaggio truce, a tratti estremo, dilemmi tragici della scelta morale, che tutti noi – si auspica in forme molto diverse – ci troviamo prima o poi ad affrontare nel nostro agire.

Tra le moltissime questioni etiche che solleva, emerge sin dall’inizio quella della libertà.

È un tema che ritorna spesso in Squid Game e che gioca un ruolo chiave nel giudizio che noi spettatori ci formiamo dei vari protagonisti della storia. La serie insiste molto nel farci notare che tutti i giocatori accettano liberamente di unirsi al gioco: addirittura torneranno a giocare anche quando hanno pienamente capito che la posta in gioco è la loro stessa vita. Sul finale, la mente ideatrice dei giochi, userà proprio questo argomento per difendere il proprio operato:

Non ho mai costretto nessuno a giocare a quel gioco. Sei persino tornato di tua spontanea volontà (ep. 9: Un giorno fortunato)

Sembrerebbe un argomento solido e incontrovertibile: i giocatori, tutti adulti, hanno scelto di aderire, dando per iscritto il loro consenso ai giochi. Significa pertanto che solo loro i veri responsabili di quanto accaduto e non l’artefice dei giochi?

Per rispondere a questa domanda dovremmo però porcene prima un’altra: sono queste persone veramente libere di scegliere?

I partecipanti al gioco, pur avendo storie e vite molto diverse fra loro, hanno tutti una cosa in comune: sono persone fortemente indebitate e, per questa ragione, vivono ai margini della società o sono sul punto di cadervi. Il gioco offre loro quella che pare essere l’ultima occasione di rifarsi una vita, di rimediare al passato e costruire un futuro migliore, per loro stessi o per i loro cari. Non tutti sono finiti in questa situazione per loro colpa, molti sono vittime di altri o della sventura, tutti, però, hanno perso le speranze di potercela fare da soli, con le proprie forze.

Quando sono tornato qui, ho capito che quello che dicevano era vero. La vita qui è un inferno persino peggiore (ep. 2: L’inferno)

Fino a che punto riteniamo una persona che si sente schiacciata dagli eventi, senza via di uscita (indipendentemente dal fatto che lo sia veramente), libera di scegliere come agire? È davvero ‘libero’ di scegliere l’alcolista in astinenza al quale venga offerto un alcolico o chi soffre di ludopatia di fronte ad una slot machine? E quanto è corresponsabile chi, sapendo della debolezza di chi ha di fronte, la sfrutta a proprio vantaggio?

Il problema etico che si pone è quello dell’autonomia morale dell’agente razionale. Entro quali condizioni è l’agente libero di scegliere? Possiamo ritenere disperazione, istinto di sopravvivenza e necessità di proteggere chi amiamo attenuanti alla nostra responsabilità morale? O nessuna situazione, per quanto eccezionale o drammatica, può giustificare comportamenti che riteniamo ‘immorali’?

Vi è un celebre caso storico, The Mignonette Case, che enuncia emblematicamente questo dilemma morale:

Qui per un approfondimento filosofico del caso: Justice Harvard.

La questione assume inevitabilmente anche un risvolto politico e sociale: se riteniamo, infatti, che fame e disperazione possano indurre le persone a compiere azioni illecite, al punto da ritenerle possibili attenuanti del loro agire, possiamo mostrarci indifferenti a povertà e disuguaglianze sociali? Combatterle e tentare di ridurle non diventa un dovere di tutti, anche di chi, per meriti o fortuna, si trova dall’altro lato della scala sociale?

Il tema dell’autonomia morale e della libertà di scelta cresce di complessità nel proseguo della serie. Via via che si avanza nel gioco, i giocatori verranno sempre più coinvolti nel determinare la morte dei propri compagni di gioco, diventando così sempre più corresponsabili degli omicidi.

[spoiler alert da qui in avanti]

Le prime sfide non implicano per il singolo una partecipazione morale alla morte dei compagni: nei primi due giochi, ‘un due tre stella’ e il gioco del biscotto, ognuno gioca per sé, non vince a discapito di altri. La situazione cambia drasticamente con la terza sfida, il tiro alla fune. Da lì in poi il dilemma morale dei giocatori si fa tragico: la vittoria, e sopravvivenza al gioco, è ottenuta attraverso l’eliminazione della squadra avversaria, il singolo giocatore è personalmente e attivamente coinvolto nell’azione criminale, ne diventa palesemente co−responsabile.

Ed è a questo punto che le coscienze dei vari protagonisti si dividono: tra chi accetta questa corresponsabilità e decide di farsene padrone, giocando in attacco e muovendo guerra agli altri giocatori, e chi la rifugge, sperando (e forse illudendosi) di non rendersi complice del gioco. Un’illusione che si assottiglia sempre più, lasciando intravedere tutta la tragicità della situazione.

Ne è un esempio il conflitto che viene ad un certo punto a crearsi tra due dei protagonisti della serie. A dividere e contrapporre Seong Gi-hun, il giocatore numero 456, dal suo vecchio amico di infanzia, Cho Sang-woo il numero 218, è l’agire di quest’ultimo che non esita a sacrificare i propri compagni di gioco, con la forza o con l’inganno, per guadagnare la vittoria ai giochi. Cho Sang-woo non sembra far altro che accettare fin in fondo le conseguenze della scelta iniziale di partecipare al gioco: vinco se altri perdono.

Vale anche in questo caso la considerazione iniziale circa le attenuanti alla responsabilità dei singoli? In fin dei conti, si potrebbe dire, i giocatori sono costretti ad agire in quel modo, pena la perdita della loro stessa vita. Questo l’argomento che il razionale Cho Sang-woo fa valere di fronte alle recriminazioni dell’amico di infanzia, che invece non accetta – pur non senza dubbi e sensi di colpa per la propria ipocrisia – di contribuire attivamente alla morte dei compagni al di fuori delle partite giocate.

C’è un’alternativa possibile al “mors tua vita mea”?  

Socrate ci ha mostrato di sì: meglio subire il male che agirlo, anche se a discapito della propria vita. Il Socrate che accetta da innocente la condanna a morte rifuggendo la fuga ci insegna che l’integrità morale di una persona, la sua dignità di essere razionale e morale vale di più della propria vita.

Essere dei nuovi Socrate è difficile, e il protagonista lo sa bene, ha scelto anche lui di salvarsi mentendo al proprio rivale. Lo ha fatto con un anziano solo, già condannato a morte imminente da un tumore; è tuttavia questa un’azione meno grave di quella dell’amico che ha ingannato un giovane padre di famiglia?

La serie ci offre molti esempi di come l’essere umano possa reagire di fronte a scelte moralmente difficili: ciascuno dei diversi personaggi è moralmente ben caratterizzato, non semplicisticamente, in bianco e nero, ma in tutta la complessità e nelle molteplici sfumature che la coscienza morale può assumere e mutare via via che si modificano le situazioni esterne e il contesto che ci provoca.

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