I bias cognitivi dovrebbero essere noti a tutti, nella vita professionale e non, e andrebbero studiati anche a scuola.
Che la nostra ragione sia limitata è verità nota da sempre ai filosofi. Più recentemente è la ricerca psicologica che ha affiancato quella epistemologica nell’indagine dei limiti o ostacoli al nostro ragionamento. Questi sono noti con il termine di “bias”, che significa “deviazione dalla norma” o “inclinazione soggettiva”, non giustificata.
Tutti noi, indipendentemente dalla nostra intelligenza, cultura e formazione siamo soggetti a bias cognitvi, e questi errori di giudizio condizionano fortemente le nostre credenze in tutti gli ambiti della nostra vita: dalle scelte lavorative, alle idee politiche, sino anche agli acquisti e a come investiremo i nostri soldi (come sanno bene psicologi, formatori, economisti ed esperti di marketing, che ai bias cognitivi prestano attenzione da tempo). Specifiche tipologie di bias sono inoltre particolarmente rilevanti nelle dinamiche di informazione e nelle interazioni sui social, e minano di fatto l’esercizio dell’autonomia di pensiero degli utenti inavvertiti.

Per tutte queste ragioni, da più parti si riconosce la necessità di rendere tutti i cittadini, giovani e adulti, professionisti e non, consapevoli di questi meccanismi. È, ad esempio, notizia di questi giorni che il governo inglese introdurrà a scuola corsi su bias cognitivi e fake-news (Independent). Noi lo facciamo già da tempo (vedi il nostro laboratorio su Post-verità e fake-news).
Capire cosa sono i bias cognitivi, come funzionano e a quali siamo individualmente più soggetti ci aiuta a comprendere le nostre scelte e la formazione delle nostre credenze; soprattutto ci dovrebbe aiutare ad esercitare auto-critica rispetto ad esse.
Ogni individuo dovrebbe imparare a riconoscere quando un ragionamento proprio o altrui è viziato da pregiudizi ed errori di giudizio, e dovrebbe divenire consapevole di quali bias o stereotipi è inconsciamente preda. Gli psicologi hanno elaborato tecniche o strategie per allenarci a neutralizzare questi ostacoli del nostro giudizio (debiasing).
Non è però tutto così semplice: purtroppo non basta studiare i bias cognitivi per evitare di caderne vittima.
Come mai? Tutta colpa, guarda caso, di un particolare bias cognitivo.
Si tratta del bias del punto cieco o blind spot bias, che fra i molti individuati (in letteratura se ne conta un centinaio) è particolarmente interessante e insidioso. È una sorta di meta-bias che ci rende impermeabili alla critica e al processo di “debiasing” o superamento degli errori: consiste nella riluttanza a riconoscere che il nostro giudizio è soggetto a bias ed errori, mentre si è perfettamente in grado di riconoscerli nel pensiero altrui.

Samuel McNerney, in un articolo per Scientific American, lo ha spiegato in questi termini: è come acquistare un libro sugli errori del pensiero e convincerci che grazie ad esso noi ne diventeremo immuni. Non ci rendiamo conto però che saper elencare i principali errori di giudizio o saperli riconoscere negli altri è ben altra cosa dal saperli evitare noi stessi: «I bias sono in gran parte inconsci, quindi quando riflettiamo sul pensiero perdiamo inevitabilmente i processi che danno origine ai nostri errori». Non è possibile gettare il lume della ragione sull’intero processo di formazione del nostro giudizio, resterà sempre una zona d’ombra, un punto cieco, sul quale non abbiamo controllo, ed è lì dove inevitabilmente agiscono tutti gli altri bias.
In altre parole, il pensiero intuitivo e inconscio non è raggirabile, lo usiamo per gran parte delle nostre operazioni mentali, e per lo più con grande successo, ma questo fa sì che tal volta commettiamo errori di giudizio, e lo facciamo del tutto inconsapevolmente e nella convinzione che le nostre credenze siano più che giustificate e razionali.
Ma quindi, studiare i bias cognitivi e i più comuni errori del ragionamento è inutile?
In realtà prendere consapevolezza dei limiti della nostra ragione è fondamentale per usarla al meglio. Le varie tecniche di debiasing non garantiranno una vittoria assoluta e definitiva contro i nostri pregiudizi, ma ci aiutano a diminuirne l’impatto. Soprattutto, però, prendere coscienza di questi processi ci aiuta a divenire più consapevoli del nostro giudizio e dei suoi limiti, e ad agire di conseguenza.
Daniel Kahneman, che per le sue ricerche sui processi decisionali e dei relativi errori ha vinto il premio Nobel per l’economia nel 2012, scrive in conclusione al suo libro Pensieri lenti e veloci:
«Che cosa si può fare per combattere i bias? Come possiamo migliorare i giudizi e le decisioni, sia nostri sia delle istituzioni che serviamo e ci servono? La risposta, in breve, è che si può fare molto poco senza un grande investimento di energie».
Lo stesso Kahneman, che ha dedicato tutta la vita allo studio dei bias cognitivi, ammette di aver fatto più progressi nel riconoscimento degli errori altrui che propri, e che il suo pensiero intuitivo, irriflesso, è probabilmente soggetto agli stessi errori di sempre.
Ora però lo sa riconoscere! Viene in mente il principio socratico di sapere di non sapere: può non sembrare una gran cosa sapere che il nostro giudizio è in parte inevitabilmente fallace, ma volete mettere il non saperlo?

Quello che Kahneman ha imparato e che tutti noi possiamo (e dobbiamo) fare per limitare pregiudizi e distorsioni è di sottoporre il nostro pensiero veloce e intuitivo all’esame del pensiero razionale. Almeno ogniqualvolta stiamo prendendo una decisione importante o prima di esprimere un’opinione frettolosa a proposito di qualcosa e qualcuno, ricordiamoci di fermarci un attimo e riflettere, facciamo lo sforzo di chiederci se una persona/opinione ci sta davvero convincendo o non convincendo, e sulla base di quali argomenti. Non accogliamola immediatamente perchè ‘ci piace’, o non rifiutiamola perchè ‘ci disturba’.
Certo è un esercizio faticoso e che richiede di mobilitare diverse risorse, psicologiche e cognitive, ma è un esercizio necessario, al quale dovremmo essere introdotti e abituati sin dall’infanzia.